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28 janvier 2014

A RISCHIO LA CULTURA CLASSICA IN ITALIA ED IN EUROPA

A rischio la cultura classica

 

in Italia ed in Europa

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SOURCE : http://www.altritaliani.net/

 

 

L’iniziativa dell’Accademia italiana Vivarium Novum
SOURCE : venerdì 24 gennaio 2014 di Gaetanina Sicari Ruffo

Il grido d’allarme è partito dalla rivista “Il Mulino” (15 Dicembre 2013, n° 6): Un appello per le Scienze Umane, lanciato da un nutrito gruppo di ben noti esperti di comunicazione, docenti e scrittori. Ed è stato subito un segnale per riaccendere la vecchia polemica tra i cultori delle scienze e gli umanisti che puntano da tempo al recupero della lettura dei classici e del sapere antico, ma non sono contro la modernità e il primato della scienza.

Dopo la famosa Querelle des Anciens e des Modernes nel Seicento [1], riguardante i canoni estetici dell’opera creata, la discussione sul confronto tra antico e moderno si è riaperta, nella seconda metà del Novecento, per opera del saggio dell’inglese Charles Percy Snow, noto anche per altre opere, Le due culture e la rivoluzione scientifica (Milano, Feltrinelli, 1965), per il quale gli esperti a lungo si divisero in merito ai vantaggi dell’educazione classica rispetto a quella scientifica, citando gli effetti ora dell’una ora dell’altra.

In verità oggi la questione, che si riteneva ormai superata, ribadisce che il sapere scientifico ha fatto molta strada e che ancora non ha ben fissato le interrelazioni con la cultura umanistica: occorre trascurarla perché considerata fuori tempo o innestarla come principio vitale di tutto il sapere? La conoscenza dei classici è fondamentale per la preparazione della struttura culturale e mentale dell’individuo, affina il carattere ed offre un valido metodo di studio che serve a successive scoperte in tutti i campi. Da tempo lo ribadisce il filologo Luciano Canfora che insiste sull’opportunità degli studi classici per la formazione dei giovani prima della scelta d’ogni professione.

S’avverte l’esigenza che sia attuata infatti un’osmosi tra saperi umanistici e scientifici, cosa che non è ancora avvenuta. Da qui il ritorno della polemica che si aggrava per via della crisi attuale. I giovani sembrano spaesati, colpa forse della politica che non interviene ad aiutarli né con riforme adatte ad incrementare la didattica scolastica, né con piani di sviluppo adeguati ad affrontare le sfide del presente.
Tra gli accusatori più critici Massimo Adinolfi, docente di Filosofia teoretica e autore del saggio: Continuare Spinoza (Editori Internazionali Riuniti) dice:
Se il patrimonio storico finisce nel dimenticatoio, come sta accadendo, si perdono le coordinate della vita pubblica. E poi ci troviamo ad essere governati da partiti come quelli attuali, formazioni senz’anima e senza storia.

Il sociologo Luciano Pellicani considera praticamente arretrata la questione e ritiene che, nell’attuale sistema, ad essere penalizzata è la ricerca scientifica che dovrebbe invece dare nuovo slancio alla formazione giovanile ed allo sviluppo del lavoro.

Roberto Esposito, docente di Storia delle Dottrine politiche e di Filosofia morale, altro firmatario dell’appello sul “Mulino”, afferma che la classe dirigente italiana ha spesso attribuito poco peso alla tradizione culturale umanistica per cui oggi ci ritroviamo con un ricchissimo patrimonio artistico culturale che va alla deriva, senza che nell’altro versante scientifico ci siano seri sbocchi per incrementare le risorse del paese e scoraggiare i giovani dalla diaspora.

Così questionando però, si confermano le fratture che avrebbero dovuto da tempo essere sanate. Mantenere le distanze tra gli opposti livelli di studi significa aumentare il disagio e la sfiducia di chi deve maturare una coscienza del sapere e del fare.
Occorre più che mai un’osmosi che si avvalga dell’integrazione degli studi per cui lo scienziato può nel contempo essere un valente umanista e sapere esplorare il campo oggettivo e quantitativo dopo aver imparato a conoscere la soggettività con tutto quel che è connesso di emotività e creatività.

L’iniziativa dell’Accademia Vivarium Novum

Appello all’UNESCO per il riconoscimento delle lingue classiche (latino e greco) come “Patrimonio immateriale dell’Umanità”

L’Accademia italiana di Vivarium Novum ha fatto bene a proporre all’Unesco, insieme ad altri istituti, di nominare le lingue latina e greca, considerate come elemento unificante della civiltà occidentale, patrimonio culturale dell’umanità, non solo europea, ma extra europea.

Si legge su Internet (http://vivariumnovum.net/unesco/it.html) l’appello, che tutti possono controfirmare e diffondere, nel quale si spiega che “i futuri uomini colti del nostro continente rischiano d’ignorare quasi del tutto il passato in cui affondano le realtà della nostra civiltà e del nostro pensiero”.
L’Italia è lo scrigno simbolico e il crocevia delle culture e delle lingue classiche e come tale deve coinvolgere tutti i settori della sua cultura ad attivarsi per difendere questo suo prezioso patrimonio. E’ necessario che l’Europa recuperi la consapevolezza della sua identità culturale e non dimentichi la civiltà che l’ha prodotta.

Recentemente anche gli Stati Uniti sono intervenuti a riconoscere l’importanza dell’umanesimo, pur se da tempo hanno sviluppato il sapere scientifico, perché l’una via d’apprendimento non esclude l’altra, ma l’ingloba e la completa. Martha Nussbaum, filosofa e studiosa di filosofia greca e romana presso l’Università di Chicago, autrice di molte opere tra cui “La fragilità del bene [2],edito da Il Mulino 2011, che la rivelò al grande pubblico internazionale, prende le mosse dal Simposio di Platone per ribadire che la cultura classica forma gli individui ad essere “cittadini del mondo” e li induce a pensare autonomamente, a criticare ed a comprendere le esigenze degli altri ed a mantenere la democrazia. Da qui la possibilità di sviluppare un fecondo dibattito e intervenire a modificare i piani programmatici per il futuro dei giovani.

Gaetanina Sicari Ruffo

 

Il patriottismo italiano delle partenze “one way”.

SOURCE : sabato 25 gennaio 2014 di Rosa Chiara Vitolo

Gli Italiani ormai da tempo sono ritornati a emigrare per trovare condizioni di vita migliori di quelle che si lasciano alle spalle. Licenziamenti e pressione fiscale, quest’ultima minacciosa come un coltello al collo dei contribuenti, hanno avuto, tra le loro conseguenze più evidenti, lo spostamento di cervelli e di capitale umano lontano dai nostri centri di produzione. Si dice che la parabola sfortunata sia finalmente in fase ascendente e a piccoli passi si dovrebbero poter vedere dati più confortanti e uno spread contenuto. Intanto molti giovani e meno giovani partono con un solo biglietto in mano.

 

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Altri restano perché non vedono alternative o perché quella di ricostruirsi un’identità ex patria richiede lo stesso coraggio necessario per rimanere. In entrambi i casi ci ritroviamo patriottici. Chi parte lo è alla vigilia, chi resta quando cerca di cambiare anche soltanto il proprio atteggiamento nei confronti dei disservizi e dell’illegalità.

Il puzzle che cercherò di ricomporre per inquadrare il fenomeno dell’emigrazione moderna si compone di pezzi pro e contro: creatività, coraggio, attaccamento, resilienza, patriottismo. La prospettiva risente inevitabilmente della personale esperienza di cittadina italiana in uscita e in ri-entrata.

Patriottismo: nel maggio del 1945 George Orwell, nell’articolo Notes on nationalism [1], tracciò una prima importante distinzione tra nazionalismo e patriottismo. Per patriottismo egli intendeva la devozione a un particolare luogo e stile di vita «che si reputa il migliore del mondo, ma che non si vuole imporre agli altri». Esso ha una connotazione essenzialmente difensiva, sotto il profilo sia militare sia culturale.

Il nazionalismo è invece «inscindibile» dal desiderio di potere. È per sua stessa natura aggressivo ed espansionista, esige che i suoi adepti dissolvano in esso la propria individualità sospendendo la capacità di giudizio.
Il patriottismo per Orwell è espressione di un affetto intimo, mentre il nazionalismo è espressione, a sua volta di un odio a stento trattenuto, proiettato all’esterno.

Nel suo caso, il sentimento assume la forma di un amore esasperato per l’Inghilterra, vista come una «una famiglia con a capo i membri sbagliati, governata da zii irresponsabili e zie inferme» [2]. Di ritorno dalla Spagna dove aveva combattuto a fianco dei repubblicani nella guerra civile, diede sfogo a tutta la sua gioia per essere tornato vivo nel suo paese, avendo rischiato di morire per un altro. Nelle sue parole, i suoi connazionali erano tutti addormentati nel profondo sonno inglese, da cui non sarebbero stati svegliati se non dal boato delle bombe.

 

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Resilienza: Quando si osservano gli esseri umani sotto la lente psicologica, la resilienza diventa la capacità di non piegarsi di fronte alle avversità, reiventarsi e riorganizzare positivamente la propria vita. «La resilienza è la capacità di risalire su una barca rovesciata» (Cyrulnick) [3].

Attaccamento: alle proprie abitudini, alla casa concepita e costruita alla maniera italiana, alle scansioni temporali lunghe dei pasti, alla lingua degli scambi e dell’espressione delle necessità, in primo luogo. Non di rado la consapevolezza di trovarsi fuori casa arriva quando iniziamo a sentire fluido, sulla lingua e alle orecchie, un sistema verbale che non è la nostra madrelingua. È curioso il fatto che, nel caso italiano, per prima sia venuta proprio la lingua.
Non c’era ancora la nazione, ma da secoli esisteva un’unità linguistico-letteraria nazionale. «Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt», scriveva Isidoro di Siviglia (Etymologiae, IX, I, II): sono le lingue che fanno i popoli, non i popoli già costituiti che fanno le lingue. Pare dunque che, nel caso italiano, non sia stata una nazione a produrre una letteratura, ma una letteratura a prefigurare il progetto di una nazione. Carducci ce lo ricorda sarcasticamente quando riporta le parole di Metternich sulla nostra penisola: si trattava soltanto di un’espressione geografica per l’austriaco. Niente di più.

 

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La minaccia ministeriale di tagli che pende sul capo di alcuni Istituti di cultura all’estero (Ankara, Lione....) fa riflettere anche sul peso della promozione linguistica dell’italiano all’estero. Metternich avrebbe forse sorriso alla conferma del fatto che in tempi di crisi la prima cosa ad andare via sia proprio la lingua.

Coraggio: ci vuole più coraggio a partire o a restare in Italia? Il coraggio potrebbe anche trovarsi nel restare cercando di cambiare, ma qui entrano in campo doti caratteriali nelle quali gli italici non eccellono. Mi riferisco al coraggio della protesta e della rivoluzione. Recentemente i presìdi dei forconi hanno infastidito qualche viaggiatore e costretto esponenti politici a rilasciare interviste allarmate. Oggi quello che resta sulle strade è poco più che avanzi di braci e striscioni che recitano: "chi non protesta non ha il diritto di chiedere".

Poi penso a studenti Erasmus spagnoli a Napoli i quali, chiamati a esprimere opinioni sulla crisi italiana, erano certi di una cosa: "gli Italiani non sanno fare la rivoluzione e per questo resta tutto uguale". Non è così semplice stabilire se zaino in spalla e fuga con cervello sia più facile del mantenimento sine die del domicilio indicato nella vecchia carta di identità. Il modello del bamboccione attaccato alla gonnella di mammà inizia per fortuna ad essere confinato in film d’epoca o in manuali per stranieri stereotipati; si resta o si parte per motivi diversi dal ragù di domeniche passate davanti alle partite di calcio.

 

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Non credo sia giusto parlare di impavidi o di cuor di leone quando si affronta il tema dell’ ’emigrazione di ritorno’. Bisognerebbe essere prudenti, perché chi parte non più diciottenne con buona approssimazione lo fa immaginando di creare una famiglia in paese straniero o, in molti casi, correndo il rischio di espiantare bambini piccoli dal contesto in cui sono nati.
Chi resta sull’altra sponda del fiume, invece, lo fa con il terrore di non poter assicurare ai propri cari un futuro all’altezza delle loro aspettative.

Il caso pensioni, per esempio, non spaventa quanto dovrebbe: un’inchiesta pubblicata su ItaliaOggiSette del 9 gennaio in cui si analizza parte del rapporto sulla coesione sociale 2013, denuncia che il 97% dei collaboratori iscritti alla gestione separata dell’INPS è a rischio pensione. Motivo? Il reddito troppo basso percepito dai lavoratori (9.700 euro nel 2012), che compromette il requisito contributivo per la pensione a oltre 726.000 lavoratori (co.co.pro., mini co.co.co., lavoratori autonomi occasionali, ecc.). Coraggioso è quindi anche chi decide di rimanere in Italia davanti a dati che mettono spalle al muro: il sistema impone a chi lavora di finanziare le pensioni di chi riposa. Quando chi lavora ora riposerà domani, si avranno due buchi e non più uno. Da una parte i disoccupati che non hanno versato alcun contributo e da una parte i "riposanti" che avrebbero diritto ad essere non più occupati.

Creatività: Papa Francesco lo ha detto a chiare lettere in un confronto con Napolitano: per far fronte alla crisi economica è necessario che l’Italia "attingendo dal suo ricco patrimonio di valori civili e spirituali, sappia nuovamente trovare la creatività e la concordia necessarie al suo armonioso sviluppo, a promuovere il bene comune e la dignità di ogni persona, e ad offrire nel consesso internazionale il suo contributo per la pace e la giustizia". [4]

 

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L’Expo Milano 2015, per esempio, potrebbe davvero essere una possibilità per il nostro paese per rilanciarsi sul palcoscenico internazionale "esponendo" i suoi punti di forza? I dati sembrano individuare zone precise di sviluppo: il settore enogastronomico collegato alla riscoperta delle tradizioni e del territorio, una rivalutazione del patrimonio architettonico e culturale che l’Italia vanta da secoli e che va legato alle innovazioni, figlie della globalizzazione e dell’intelligenza tecnologica.

Conclusioni: Per chi ha vissuto partenze e ritorni è difficile prendere posizione su quanto costi partire e quanto restare. Che si abbia o meno intenzione di ritornare in Italia e tentare di far fruttare professionalità e competenze acquisite fuori, sarebbe auspicabile un patriottismo continuato, insistente e fattivo.

Il patriottismo è un sentimento individuale e allo stesso tempo è seme di comunanza politica; la barca rovesciata sulla quale risalire potrebbe essere metafora dell’Italia e la resilienza un approccio positivo per reinventare una rotta che preventivi e gestisca carichi fiscali ingiusti, l’evasione, la chiusura per fallimento di piccole e medie imprese mentre l’attaccamento al proprio posto di lavoro e a condizioni contrattuali legali potrebbe essere la molla per imparare a protestare per diritti che in Paesi vicini sono scontati; il coraggio di investire ancora in un paese immobilizzato e povero o quello, non da meno, di lasciare tutto e ricostruirsi senza aiuti esterni.

 

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La politica vista come una delle radici di appartenenza ad un gruppo. Creatività e politica, o meglio la politica della creatività, binomio inusuale eppure possibile, infine, su cui investire il capitale umano, non importa se fisicamente e geograficamente distribuito in patria o all’estero. L’Italia è chiamata a preservarlo con tutte le sue forze se vuole ripartire.

Il patriottismo allora potrebbe essere rivisto in chiave meno romantica e più concreta quale ramo di unione tra i cittadini e lo Stato in un albero che abbia per radici valori culturali dal peso sostenibile in quanto a noi congeniale. L’artigianato, la moda e il design, le accademie di arti, i percorsi del gusto sperimentati nei loro territori d’origine, insieme concorrebbero a fare dell’ italianità un marchio nuovamente competitivo in tutto il mondo.

Rosa Chiara Vitolo

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